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FILOSOFIA E PROBLEMATICITA’

Per la trattazione del tema indicato nel titolo ho tenuto particolarmente presenti due opere scritte da due Autori-filosofi della scuola padovana di Metafisica classica. Il primo è Marino Gentile (1906-1991) che è stato ordinario di filosofia teoretica e inc. di Storia della filosofia dal 1956 al 1976, anno della sua collocazione fuori ruolo. L’opera cui mi riferisco è Filosofia e Umanesimo, LA Scuola, Brescia, 1947). Il secondo è Pietro Faggiotto (1923-2010) che ha insegnato Filosofia nella Facoltà di Magistero dal 1961 al 1976 e poi è stato ordinario di Filosofia teoretica dal 1976 al 1993, anno della sua collocazione fuori ruolo. L’opera sua a cui mi riferisco è “Saggio sulla struttura della metafisica, seconda edizione, C.E.D.A.M., Padova, 1969. Faggiotto parte dall’assunto che “Filosofia è ricerca della sapienza, ricerca cioè di una visione totale e radicale della realtà”. La filosofia è perciò la stessa “domanda totale” o “trascendentale” che è alla radice di tutto il processo conoscitivo, ma che soltanto alla fine giunge alla sua consapevole formulazione. Una delle caratteristiche più largamente riconosciute alla filosofia è appunto questa sua esigenza di totalità, di onnicomprensività. In fondo si tratta del concetto aristotelico di filosofia come metafisica, cioè come “ricerca delle cause prime e dei primi principi”, o del concetto Kantiano di metafisica come “aspirazione all’Incondizionato”. Il fatto che nel concetto, anzi nel nome stesso di filosofia, sia messo in risalto l’aspetto della ricerca piuttosto che del possesso, è un chiaro segno della difficoltà estrema del compito che la filosofia si assume. In un certo senso, anzi, questo obiettivo è irraggiungibile, se perseguito lungo la linea sulla quale procede la scienza. Questa avanza collegando ad uno ad uno i singoli dati tra loro ma, per l’enorme sproporzione tra la limitatezza dell’intelligenza umana, e dei suoi strumenti, e la infinita varietà dei fenomeni particolari, la totalità, per questa via, non può essere attinta. Inoltre, una totalità come somma di dati particolari è sempre una totalità che viene crescendo su se stessa, ed è, di volta in volta, come totalità, provvisoria. Al contrario, la totalità cui la filosofia aspira è una totalità definitiva, incondizionata, assoluta. A questa la filosofia cerca di pervenire per una via tutta propria, attraverso una sorta di visione globale. Orbene, la filosofia è possibile solo se è possibile una visione del tutto che in qualche modo prescinda dalla visione delle singole parti. A voler essere esatti, va detto che il nucleo originario di questa visione non costituisce per il pensiero umano, e per la filosofia, oggetto di ricerca, ma, in un certo modo, di iniziale possesso. Questo attribuire alla filosofia un iniziale possesso non contraddice, però, secondo Faggiotto, al carattere di radicale ricerca che le è stato precedentemente riconosciuto. È nota l’aporia dei rapporti tra ricerca e possesso conoscitivo. Non si ricerca ciò che già si conosce, ma non si ricerca se non si conosce che cosa si debba ricercare. L’aporia si supera, secondo Faggiotto, distinguendo due diverse forme di conoscenza o possesso: vi è un possesso iniziale imperfetto che stimola la ricerca; e vi è un possesso finale perfetto che, se fosse raggiunto, farebbe fine alla ricerca stessa. La filosofia è dunque totale, radicale ricerca, per quanto può esserlo una ricerca, la quale non sarebbe tale se non includesse un qualche nucleo di originaria certezza. Orbene, il motivo delle filosofia come ricerca ha trovato, a mio avviso, una equilibrata formulazione nella concezione della problematicità pura di Marino Gentile, secondo il quale la filosofia è quel “domandare tutto che è insieme un tutto domandare”, è cioè quella problematicità “che è non solo totale, perché è problema di tutto, ma anche integrale, ‘perché non è altro che problema: puramente e semplicemente problema”. (Filosofia e Umanesimo, la Scuola, Brescia, 1947,p.12). E Gentile così prosegue “il problema, dal quale la riflessione filosofica muove come dalla sua prima condizione, non è questo o quel problema; ma il problema nella forma più assoluta e propriamente trascendentale. Se problema significa domandare e sistema significa rispondere, il problema da cui deve muovere la filosofia, è un assoluto e puro domandare; è un domandare tutto, ma per questo dev’essere insieme un tutto domandare; cioè, per essere domanda su tutto quel che di domanda può formare oggetto, dev’essere intrinsecamente null’altro che domanda; è un puro domandare senza che nell’atto di domandare esso sia minimamente un rispondere: è problematicità pura” (op. cit, p.155).

Tuttavia, questa esclusione di ogni sapere dal momento problematico iniziale non significa una chiusura scettica del problema su se stesso. La negazione riguarda soltanto un sapere che abbia, come la domanda, le caratteristiche della totalità e dell’integralità, ma non è negazione di qualche altra forma di sapere originario. Infatti Gentile avverte: “Domandare non è certo ancora sapere la risposta, chè altrimenti uno non domanderebbe; ma è un sapere almeno questo, che una risposta, universale come la domanda, ci deve essere. Quindi, vista in relazione al sistema, la problematicità assoluta è un saper niente, ma vista in se stessa, problematicamente, è un sapere tutto: ben s’intende, non in atto, ma in potenza” (op. cit., pp.155-156). Ciò significa che la problematicità “pura” non è una problematicità “vuota” ma è quella forma di sapere concreto, benchè finito, che si colloca tra un assoluto saper niente e un assoluto saper tutto, e che in rapporto a quest’ultimo rivela la propria problematicità, la propria finitezza, appunto. Nel suo momento iniziale la problematicità pura coincide con la stessa esperienza. Dice Gentile a tal proposito: “l’esperienza è un conoscere tante cose, ma è, strutturalmente, un domandare quella ragione del tutto, che non può essere data dall’esperienza stessa, per quanto ci sforziamo di raccoglierla ad unità, nella maggiore ampiezza e complessità possibile; ed è un domandare assoluto, poiché il domandare il tutto diventa, nonostante la parziali certezze e immediatezze, un tutto domandare” (Filosofia e Umanesimo, p.156). Tuttavia la problematicità non è soltanto la condizione iniziale, ma è in un certo senso la stessa situazione intrascendibile del sapere umano, anche nel momento finale della sistemazione, della risposta. Infatti, anche quando si giunga, come giunge M. Gentile, all’affermazione di un principio assoluto, di un Atto trascendente l’esperienza, la conclusione non si trasforma mai in un possesso incontrastato, ma si sostiene soltanto sul perdurare della tensione problematica attraverso cui è stata raggiunta. Pertanto, in conclusione, possiamo dire che l’affermazione del carattere problematico di tutta la conoscenza umana non ha in M. Gentile il significato di una negazione scettica, ma è il riconoscimento del valore e, ad un tempo, dei limiti del nostro sapere. Ora, secondo Faggiotto, se la filosofia è la ricerca di una visione totale e radicale, cioè della visione della totalità delle cose nella loro fondamentale ragione, la filosofia deve originariamente conoscere, seppure in forma implicita, l’esistenza di questa totalità, l’esistenza di questa ragione. Tuttavia, tale conoscenza originaria non è, secondo Faggiotto, patrimonio esclusivo della filosofia, ma della mente umana in generale. Infatti, la persuasione dell’esistenza di una ragione a fondamento di tutte le cose è presente, con diverso grado di consapevolezza, sia nella esperienza comune sia nella ricerca scientifica. Solo che, in questi gradi del sapere, l’interesse è rivolto alla giustificazione dei fatti particolari, mentre la totalità in quante tale e le sue ragioni supreme non sono oggetto di indagine. La filosofia, invece si rivolge espressamente alla totalità cercando di determinare l’orizzonte estremo, che sia in grado di includere la ragione prima, che sia capace di giustificare la mutevole varietà delle cose. In questo senso, secondo Faggiotto, la filosofia è esplicitazione dell’implicito, tematizzazione dell’atematico. Orbene, l’orizzonte estremo attinto dal pensiero umano nella sua esigenza di totalità è rappresentato dall’idea dell’essere in quanto essere. Infatti, per quanto diverse possano tra loro risultare le cose, esse convengono tutte nel fatto stesso di essere. Ciò significa che le cose si distinguono una dall’altra nell’essere ciascuna questa o quella cosa, ma tutte hanno in comune la necessità di essere qualcosa. Dunque, pensare l’essere in quanto essere è già rappresentarsi quel piano universale entro il quale si collocano le molteplici cose, qualunque sia la struttura che ciascuna di esse presenta. E’ pur vero che la nozione dell’essere in quanto essere per la sua stessa vastità è cosi vaga e cosi indeterminata rispetto a ciò che ogni cosa è nella sua concretezza, che si è portati a domandarsi se si tratti di una autentica idea o se non sia, per caso, un nome vuoto, privo di significato.

Tuttavia, per quanto difficile possa apparire una esplicita semantizzazione dell’idea dell’essere, sembra a Faggiotto che l’obiezione nominalistica trovi un principio di superamento nell’accostamento tra il termine “essere” e il termine “cosa”. Il concetto di essere non è una invenzione di filosofi di professione, esso è l’equivalente, sul piano della riflessione, di quel concetto di cosa cui il parlare comune fa così spesso ricorso. In altre parole, l’essere o la cosa è il denominatore comune cui si ricorre quando ci si vuol riferire alle cose, nella loro generalità. Senza questo concetto la molteplicità non potrebbe essere colta come totalità. Ora, conclude Faggiotto, poiché non ci sarebbe né discorso comune, né discorso scientifico, né discorso filosofico senza lo stimolo della “domanda totale”, e quindi senza la presenza al nostro pensiero della totalità e dell’essere che la circoscrive, totalità ed essere sono da considerarsi oggetto di esperienza e precisamente di esperienza implicita o atematica.

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