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Hostaria leteraria Este
Lunedì 9 Ottobre 2017
“Dal Risorgimento alla Costituzione”
Le cante e le storie che hanno fatto l’Italia
Rel. Prof Otello Perazzoli
Alla nostra infanzia, o agli anni delle scuole elementari, sono legati molti canti
che non abbiamo più dimenticato. Si tratta, in molti casi, di canti risorgimentali
che hanno superato indenni l’oblio cui non sono sfuggiti altri esempi di quegli
anni.
L ‘occasione di ricercarli e di riproporli mi è stata offerta qualche anno fa,
precisamente nel 2011, dal 150° anniversario dell’Unità d’Italia nel quale ero
stato invitato in più occasioni a proporre i canti del Risorgimento E’ così che ho
avuto l’opportunità di ricordare che, nel centesimo anniversario della
ricorrenza, nel 1961,io ero scolaro di quinta elementare e, come tutti i
compagni, andavo a scuola con la coccarda tricolore fissata al grembiulino e
con un volumetto con letture di carattere storico-patriottico che era stato
consegnato a noi tutti dal Signor Maestro (come si chiamava allora). La
copertina era bianca con la coccarda tricolore. Dopo averlo perso, ma mai
dimenticato, l’ho ritrovato in uno dei preziosi mercatini dell’usato che sono
solito visitare.
Anno importante per il nostro Risorgimento è stato senz’altro il 1848, basti
ricordare le 5 Giornate di Milano e la Prima Guerra d’ Indipendenza. Ed è
appunto a questi due eventi che si collegano i primi due canti che ho proposto.
Il primo è stato La bella Gigogìn. Gigogìn è un nome proprio piemontese, il
diminutivo dialettale di Teresa. La leggenda, o forse la storia, vuole che così si
chiamasse una ragazza che viveva in collegio a Milano. Tutta pervasa di amor
patrio , mal sopportava di stare rinchiusa mentre, fuori, infuriavano le 5
giornate (18-22 marzo 1848). Raggiunge i patrioti e diventa vivandiera
portando i pasti tra le barricate. La rivolta di Milano, si sa, non va a buon fine,
ma la fama della bella Gigogìn continuerà per tanti anni ancora. A questo
contribuiscono i numerosi doppi sensi legati al testo: “par non magnàr
polenta”, cioè per non rimanere sotto il dominio Austroungarico, “bisogna aver
pazienza”, non si deve agire d’impulso ,ma “lassarla maridàr” lasciare che i
Savoia si alleino con Napoleone 3°, imperatore dei Francesi. E furono queste
parole e queste note che accompagnarono i soldati nelle successive guerre di
Indipendenza. Dieci anni dopo, il 31 dicembre 1858, alla vigilia della seconda
guerra di Indipendenza, la banda di Milano, in festa al Teatro Carcano, fu
costretta, a furor di popolo, a suonarla dieci volte…..
Altro canto famosissimo è “ Il canto del legionario” meglio conosciuto col
primo verso: “Addio, mia bella, addio”. Sulla sua origine si sanno molte cose.
A scriverla fu un avvocato fiorentino, Carlo Alberto Bosi, che in una bella
mattinata di sole, il 20 marzo 1848, a Firenze ,davanti al caffè Castelmur vide
passare il gruppo degli universitari toscani che andavano in Piemonte per
arruolarsi come volontari tra le file dell’esercito in partenza per la Prima Guerra
di Indipendenza. L’efficacia della melodia e la struggente nostalgia del testo,
che non nasconde la possibilità di un esito drammatico della guerra, fecero sì
che per tante guerre ancora questa sia stata la canzone dei soldati in partenza.
Di argomento analogo ma ambientato ala vigilia della Prima Guerra Mondiale
è un canto poco noto che ho avuto la fortuna di ritrovare in una frazione isolata
del comune di Selva di Progno. Si tratta di “ Passando per Milano”
Protagonista del canto, in questo caso, è una giovane donna che, passando per
Milano in una notte che pioveva col fazzoletto in mano si asciugava le lacrime
provocate dalla vista di tanti giovani soldati che andavano alla Stazione
Centrale a raggiungere la tradotta che li avrebbe portati al fronte. Piangeva
perché sapeva che molti di loro non sarebbero più tornati a casa
E, col senno di poi, si sa che fu facile profezia la sua. Per la cronaca, alla fine
di ottobre saranno passati giusto 100 anni dalla disfatta di Caporetto!
Un altro canto che ho proposto ci parla di un personaggio a noi sconosciuto,
che non trova citazione alcuna in nessun libro di storia. Si tratta di Giulio.
Lavezzari, fervente garibaldino, nato a Bezzecca nel 1848. Giuseppe
Garibaldi era da sempre il suo mito, l’eroe dei suoi sogni e grande fu la sua
delusione per non poter partecipare alla Spedizione dei Mille in quanto, nel
1860, era solo dodicenne. Fece tempo però ad arruolarsi nei Cacciatori delle
Alpi, nel 1866, durante la terza Guerra di Indipendenza. Fu in questa
occasione che potè combattere a fianco del suo mito. Gli anni passarono,
Garibaldi, come la storia insegna, morì a Caprera e Lavezzari visse il resto
della sua vita nel culto del suo eroe. Ed è a questo punto che succede qualche
cosa di imprevisto e di imprevedibile: alla vigilia della prima guerra mondiale
gli apparve in sogno Garibaldi che gli intimava di partire perché la patria
aveva ancora bisogno di lui. Lavezzari ha oramai 67 anni ma non esita un
attimo: prese giusto “due soldi per il vino e salì sulla tradotta come uno di
vent’anni” Di lì a poco andrà incontro alla morte sul Podgora.
E molto verosimile pensare che testo e musica siano stati scritti da un
cantastorie perché personaggi come Giulio Lavezzari mai sono entrati nelle
pagine di un libro di storia “ufficiale”. Sono stati i cantastorie che in questa ed
in tante altre occasioni, hanno avuto il compito di far giustizia dando visibilità
e onore a fatti o a tanti personaggi che noi non avremmo mai avuto la
possibilità di ricordare. Per citare solo qualche esempio penso al naufragio del
piroscafo Sirio, salpato da Genova il 3 di agosto alle 5 di sera col suo doloroso
carico di emigranti. Per l’avidità del comandante che modificò la rotta per
imbarcare clandestini, fece naufragio al largo di Capo Palos in Spagna. Altro
“pezzo forte” dei cantastorie fu la canta sul disastro minerario di Marcinelle,
dell’agosto del 1956.
Per tornare alla storia non “ufficiale” protagonista di un altro canto di
cantastorie fu il soldato Offelini che, dopo 5 anni di guerra, tornato in patria, si
sofferma a mangiare un grappolo d’uva nei suoi campi. Il padre, appostato
dietro ad una vigna, non lo riconosce, lo scambia per un ladro e lo uccide. La
canzone narra che, di lì a poco, il padre impazzi’ dal dolore.
Ritornando al “nostro” Risorgimento, singolare fu quanto successe alla fine
della Guerra di Crimea in cui Francesi e ,Inglesi, con l’aiuto dei bersaglieri
piemontesi, nel 1855 riuscirono a sconfiggere i Russi. Alla fine della guerra
accadde che i vincitori invitarono a cena gli ufficiali russi prigionieri. Al
termine della serata, pieni di dignità, gli ufficiali russi si alzarono in piedi ed
intonarono l’inno nazionale. Li seguirono gli Inglesi con “God save the Queen”,
toccò poi ai Francesi che intonarono la Marsigliese. Un grosso problema si
presentò ai Piemontesi che, non avendo una nazione già formata, di
conseguenza non avevano nemmeno l’inno nazionale. A questo punto, tra gli
ufficiali si alzò il Maggiore Martina, originario di Monforte, Cuneo. Gli bastò
guardare in faccia i colleghi ed intonò un canto a ballo popolare che,
trasformato con un ritmo marziale, diventò il primo inno d’Italia ante litteram.
Per la cronaca si trattava di”O ciau ciau Maria Catlina”,una manfrina del testo
licenzioso tante volte suonata sulle aie e nelle piazze per accompagnare il
ballo sfrenato della manfrina. Ricerche effettuate negli anni ’60 del secolo
scorso hanno portato a verificare che questa che sembrava una vox populi, ha
buone possibilità di essere una storia vera. Il Maggiore Martina è realmente
esistito e nella sua casa, rimasta chiusa dopo la morte, furono trovate divise e
mappe della Guerra di Crimea
A ricordare un grave fatto che coinvolse la città di Verona è il canto
successivo. Si tratta de “L’inondassion” che narra della drammatica rotta
dell’Adige del settembre 1882. In quell’occasione venne in visita anche re
Umberto, particolare questo ben ricordato nel testo della canzone “anca a Re
Umberto/ a vedere sti spegassi/ mosso a compassiòn/ ghe vegnea i lagrimassi”
La canzone poi, nella sua ultima strofa, invoca l’aiuto di Maria Santissima
invitata a chiudere un occhio e ad avere pietà “anche se qualche volta se
g’avemo imbriagà
Siamo così arrivati alla fine dell’800, decenni caratterizzati dalla massiccia
emigrazione dalle terre del Triveneto verso l’America del Sud. Sono gli anni
successivi all’Unità ed al passaggio del Venero al Regno d’Italia. Anni in cui
prioritario era il pareggio del bilancio che fu raggiunto (caso unico in tutta la
storia d’Italia) ma a costo dell’introduzione di nuove, devastanti tasse. Tra tutte
valga la tassa sul macinato e quella sul sale. Ciò fece aumentare il numero di
poveri e di disperati che cercarono lontano nuove prospettive di vita. Si
assistette ad un esodo biblico di persone attirate dalla prospettiva del possesso
di un pezzo di terra che, in Italia potevano solo sognare. Significativo è quel
proverbio che la dice lunga sulla loro povertà: “L’era tanto pitoco che, par
cagàr sul suo, el dovea cagarse in man”. A quegli anni appartengono “Mamma
mia dammi cento lire” e “Merica , Merica” che, ancora oggi, è l’inno dei
discendenti di quegli emigranti.
Ma quelli non furon solo gli anni della grande emigrazione transoceanica. Si
assistette infatti ad una possente emigrazione interna, stagionale, quella delle
mondine che dal Veneto e dalle regioni limitrofe raggiungevano il Piemonte
per il trapianto e la monda del riso. A questa vera e propria epopea risalgono
tantissime cante popolari che accompagnavano la fatica della risaia, scandendo
i ritmi del lavoro comune o testimoniando la loro protesta per le condizioni
durissime di vita e di lavoro. Tra tutte ricordiamo: “Senti le rane che cantano”
“Sior padron dalle bele braghe bianche” “Addio morettin ti lascio” “Quando
saremo a Reggio Emilia” e tante, tantissime altre.
A questo punto colgo l’occasione per ringraziare il Dottor Realdon che mi ha
invitato, il Dottor Mardegan che mi ha presentato

Hostaria leteraria EsteLunedì 9 Ottobre 2017“Dal Risorgimento alla Costituzione”Le cante e le storie che hanno fatto l’ItaliaRel. Prof Otello Perazzoli
Alla nostra infanzia, o agli anni delle scuole elementari, sono legati molti cantiche non abbiamo più dimenticato. Si tratta, in molti casi, di canti risorgimentaliche hanno superato indenni l’oblio cui non sono sfuggiti altri esempi di queglianni.L ‘occasione di ricercarli e di riproporli mi è stata offerta qualche anno fa,precisamente nel 2011, dal 150° anniversario dell’Unità d’Italia nel quale erostato invitato in più occasioni a proporre i canti del Risorgimento E’ così che hoavuto l’opportunità di ricordare che, nel centesimo anniversario dellaricorrenza, nel 1961,io ero scolaro di quinta elementare e, come tutti icompagni, andavo a scuola con la coccarda tricolore fissata al grembiulino econ un volumetto con letture di carattere storico-patriottico che era statoconsegnato a noi tutti dal Signor Maestro (come si chiamava allora). Lacopertina era bianca con la coccarda tricolore. Dopo averlo perso, ma maidimenticato, l’ho ritrovato in uno dei preziosi mercatini dell’usato che sonosolito visitare.Anno importante per il nostro Risorgimento è stato senz’altro il 1848, bastiricordare le 5 Giornate di Milano e la Prima Guerra d’ Indipendenza. Ed èappunto a questi due eventi che si collegano i primi due canti che ho proposto.Il primo è stato La bella Gigogìn. Gigogìn è un nome proprio piemontese, ildiminutivo dialettale di Teresa. La leggenda, o forse la storia, vuole che così sichiamasse una ragazza che viveva in collegio a Milano. Tutta pervasa di amorpatrio , mal sopportava di stare rinchiusa mentre, fuori, infuriavano le 5giornate (18-22 marzo 1848). Raggiunge i patrioti e diventa vivandieraportando i pasti tra le barricate. La rivolta di Milano, si sa, non va a buon fine,ma la fama della bella Gigogìn continuerà per tanti anni ancora. A questo
contribuiscono i numerosi doppi sensi legati al testo: “par non magnàrpolenta”, cioè per non rimanere sotto il dominio Austroungarico, “bisogna averpazienza”, non si deve agire d’impulso ,ma “lassarla maridàr” lasciare che iSavoia si alleino con Napoleone 3°, imperatore dei Francesi. E furono questeparole e queste note che accompagnarono i soldati nelle successive guerre diIndipendenza. Dieci anni dopo, il 31 dicembre 1858, alla vigilia della secondaguerra di Indipendenza, la banda di Milano, in festa al Teatro Carcano, fucostretta, a furor di popolo, a suonarla dieci volte…..Altro canto famosissimo è “ Il canto del legionario” meglio conosciuto colprimo verso: “Addio, mia bella, addio”. Sulla sua origine si sanno molte cose.A scriverla fu un avvocato fiorentino, Carlo Alberto Bosi, che in una bellamattinata di sole, il 20 marzo 1848, a Firenze ,davanti al caffè Castelmur videpassare il gruppo degli universitari toscani che andavano in Piemonte perarruolarsi come volontari tra le file dell’esercito in partenza per la Prima Guerradi Indipendenza. L’efficacia della melodia e la struggente nostalgia del testo,che non nasconde la possibilità di un esito drammatico della guerra, fecero sìche per tante guerre ancora questa sia stata la canzone dei soldati in partenza.Di argomento analogo ma ambientato ala vigilia della Prima Guerra Mondialeè un canto poco noto che ho avuto la fortuna di ritrovare in una frazione isolatadel comune di Selva di Progno. Si tratta di “ Passando per Milano”Protagonista del canto, in questo caso, è una giovane donna che, passando perMilano in una notte che pioveva col fazzoletto in mano si asciugava le lacrimeprovocate dalla vista di tanti giovani soldati che andavano alla StazioneCentrale a raggiungere la tradotta che li avrebbe portati al fronte. Piangevaperché sapeva che molti di loro non sarebbero più tornati a casaE, col senno di poi, si sa che fu facile profezia la sua. Per la cronaca, alla finedi ottobre saranno passati giusto 100 anni dalla disfatta di Caporetto!Un altro canto che ho proposto ci parla di un personaggio a noi sconosciuto,che non trova citazione alcuna in nessun libro di storia. Si tratta di Giulio.Lavezzari, fervente garibaldino, nato a Bezzecca nel 1848. GiuseppeGaribaldi era da sempre il suo mito, l’eroe dei suoi sogni e grande fu la suadelusione per non poter partecipare alla Spedizione dei Mille in quanto, nel1860, era solo dodicenne. Fece tempo però ad arruolarsi nei Cacciatori delleAlpi, nel 1866, durante la terza Guerra di Indipendenza. Fu in questaoccasione che potè combattere a fianco del suo mito. Gli anni passarono,Garibaldi, come la storia insegna, morì a Caprera e Lavezzari visse il restodella sua vita nel culto del suo eroe. Ed è a questo punto che succede qualchecosa di imprevisto e di imprevedibile: alla vigilia della prima guerra mondiale
gli apparve in sogno Garibaldi che gli intimava di partire perché la patriaaveva ancora bisogno di lui. Lavezzari ha oramai 67 anni ma non esita unattimo: prese giusto “due soldi per il vino e salì sulla tradotta come uno divent’anni” Di lì a poco andrà incontro alla morte sul Podgora.E molto verosimile pensare che testo e musica siano stati scritti da uncantastorie perché personaggi come Giulio Lavezzari mai sono entrati nellepagine di un libro di storia “ufficiale”. Sono stati i cantastorie che in questa edin tante altre occasioni, hanno avuto il compito di far giustizia dando visibilitàe onore a fatti o a tanti personaggi che noi non avremmo mai avuto lapossibilità di ricordare. Per citare solo qualche esempio penso al naufragio delpiroscafo Sirio, salpato da Genova il 3 di agosto alle 5 di sera col suo dolorosocarico di emigranti. Per l’avidità del comandante che modificò la rotta perimbarcare clandestini, fece naufragio al largo di Capo Palos in Spagna. Altro“pezzo forte” dei cantastorie fu la canta sul disastro minerario di Marcinelle,dell’agosto del 1956.Per tornare alla storia non “ufficiale” protagonista di un altro canto dicantastorie fu il soldato Offelini che, dopo 5 anni di guerra, tornato in patria, sisofferma a mangiare un grappolo d’uva nei suoi campi. Il padre, appostatodietro ad una vigna, non lo riconosce, lo scambia per un ladro e lo uccide. Lacanzone narra che, di lì a poco, il padre impazzi’ dal dolore.Ritornando al “nostro” Risorgimento, singolare fu quanto successe alla finedella Guerra di Crimea in cui Francesi e ,Inglesi, con l’aiuto dei bersaglieripiemontesi, nel 1855 riuscirono a sconfiggere i Russi. Alla fine della guerraaccadde che i vincitori invitarono a cena gli ufficiali russi prigionieri. Altermine della serata, pieni di dignità, gli ufficiali russi si alzarono in piedi edintonarono l’inno nazionale. Li seguirono gli Inglesi con “God save the Queen”,toccò poi ai Francesi che intonarono la Marsigliese. Un grosso problema sipresentò ai Piemontesi che, non avendo una nazione già formata, diconseguenza non avevano nemmeno l’inno nazionale. A questo punto, tra gliufficiali si alzò il Maggiore Martina, originario di Monforte, Cuneo. Gli bastòguardare in faccia i colleghi ed intonò un canto a ballo popolare che,trasformato con un ritmo marziale, diventò il primo inno d’Italia ante litteram.Per la cronaca si trattava di”O ciau ciau Maria Catlina”,una manfrina del testolicenzioso tante volte suonata sulle aie e nelle piazze per accompagnare ilballo sfrenato della manfrina. Ricerche effettuate negli anni ’60 del secoloscorso hanno portato a verificare che questa che sembrava una vox populi, habuone possibilità di essere una storia vera. Il Maggiore Martina è realmenteesistito e nella sua casa, rimasta chiusa dopo la morte, furono trovate divise emappe della Guerra di Crimea
A ricordare un grave fatto che coinvolse la città di Verona è il cantosuccessivo. Si tratta de “L’inondassion” che narra della drammatica rottadell’Adige del settembre 1882. In quell’occasione venne in visita anche reUmberto, particolare questo ben ricordato nel testo della canzone “anca a ReUmberto/ a vedere sti spegassi/ mosso a compassiòn/ ghe vegnea i lagrimassi”La canzone poi, nella sua ultima strofa, invoca l’aiuto di Maria Santissimainvitata a chiudere un occhio e ad avere pietà “anche se qualche volta seg’avemo imbriagàSiamo così arrivati alla fine dell’800, decenni caratterizzati dalla massicciaemigrazione dalle terre del Triveneto verso l’America del Sud. Sono gli annisuccessivi all’Unità ed al passaggio del Venero al Regno d’Italia. Anni in cuiprioritario era il pareggio del bilancio che fu raggiunto (caso unico in tutta lastoria d’Italia) ma a costo dell’introduzione di nuove, devastanti tasse. Tra tuttevalga la tassa sul macinato e quella sul sale. Ciò fece aumentare il numero dipoveri e di disperati che cercarono lontano nuove prospettive di vita. Siassistette ad un esodo biblico di persone attirate dalla prospettiva del possessodi un pezzo di terra che, in Italia potevano solo sognare. Significativo è quelproverbio che la dice lunga sulla loro povertà: “L’era tanto pitoco che, parcagàr sul suo, el dovea cagarse in man”. A quegli anni appartengono “Mammamia dammi cento lire” e “Merica , Merica” che, ancora oggi, è l’inno deidiscendenti di quegli emigranti.Ma quelli non furon solo gli anni della grande emigrazione transoceanica. Siassistette infatti ad una possente emigrazione interna, stagionale, quella dellemondine che dal Veneto e dalle regioni limitrofe raggiungevano il Piemonteper il trapianto e la monda del riso. A questa vera e propria epopea risalgonotantissime cante popolari che accompagnavano la fatica della risaia, scandendoi ritmi del lavoro comune o testimoniando la loro protesta per le condizionidurissime di vita e di lavoro. Tra tutte ricordiamo: “Senti le rane che cantano”“Sior padron dalle bele braghe bianche” “Addio morettin ti lascio” “Quandosaremo a Reggio Emilia” e tante, tantissime altre.
A questo punto colgo l’occasione per ringraziare il Dottor Realdon che mi hainvitato, il Dottor Mardegan che mi ha presentato e tutti gli straordinari membridell’Hostaria Leteraria che mi hanno ascoltato con tanto interesse e partecipazione: grazie!

Otello Perazzoli

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